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Proviamo a partire, a ragionare su questo tema difficile. Non è semplice da affrontare, in occasione del centenario della nascita ed il ventennale della morte, una figura tra le più importanti dell’architettura italiana del dopoguerra. Non è per nulla semplice capire da dove partire e forse non è nemmeno possibile. Anzi probabilmente sarà meglio seguire il suggerimento di John Cage, “parti da un punto qualunque”.
Perché per affrontare quella che è evidentemente una personalità ricca di sfaccettature un punto qualunque potrebbe essere comunque l’inizio di un viaggio. Come facciamo da anni, viaggiare senza una meta, senza un obbiettivo definito consapevoli che quando sai dove vuoi arrivare arrivi solo dove volevi andare mentre se lasci che sia il viaggio a guidarti arriverai certamente dove non ti aspettavi di andare. Forse è questo metodo la cifra del nostro ricercare di questi anni, passati a viaggiare nei posti o tra le pieghe delle persone senza soluzione di continuità.
Gino Valle non lo abbiamo conosciuto direttamente quindi alla nostra partenza non avevamo, come vedremo dopo, pregiudizi ma solamente curiosità. Ricordiamo tuttavia che pur non avendolo conosciuto, il giorno del suo funerale ci sembrò inevitabile andare, per testimoniare la vicinanza a qualcuno che avevamo percepito come fondamentale per il contributo che aveva dato all’architettura del nostro territorio. Essere là quel giorno, essere accidentalmente seduti a fianco allo stesso Federico Marconi che ora ci accoglie a casa sua a raccontarci dell’amico Gino è forse quel lontano punto di partenza casuale che ha molto tempo fa inconsapevolmente segnato la partenza di questo viaggio.
Ed oggi ci interroghiamo per prima cosa sul senso di ricordare le persone e cosa sia il ricordo. Come si ricordano le persone? Cosa vorrebbero le persone fosse ricordato di loro? E noi architetti che desideriamo lasciare pezzi di noi per il mondo, dentro gli intonaci degli edifici, tra le pietre delle piazze, nelle ombre del calcestruzzo. Ci trasformiamo davvero in quelle cose, un pezzo alla volta nell’arco delle nostre vite?
Tre fotografi fotografano i tre lavori di Valle che fanno da ulteriore testo a questo articolo. Opere che lentamente si stanno deteriorando, quasi a negare il pensiero precedente. E’ quindi una contraddizione? Lottiamo per lasciare pezzi di noi puntando all’eternità ma il tempo cancella anche gli edifici più solidi. Il Kursaal di Arta è lasciato a se stesso ed evidente degrado, la natura si sta rimpossessando delle tipografie Chiesa dismesse ed abbandonate da anni, le case di Santo Stefano di Buja resistono con molti sforzi al passare del tempo grazie all’impegno delle famiglie che vivono quel luogo e ne mantengono la qalità. E’ un fallimento? Forse non è questo ciò che dovremmo puntare a lasciare, ma altro e cosa quindi?
E allora si viaggia a parlare con le persone a parlare per provare a trovare l’altro che non sia calcestruzzo e acciaio di Gino Valle. Persone scelte sulla base degli abiti che l’architetto era capace di indossare. Quello del collega, quello del mentore, quello del progettista. Abiti differenti per dialoghi differenti.
Paolo Fantoni, in quanto imprenditore, è in grado di vedere da fuori con maggior chiarezza il ruolo dell’architetto ed evidenziarne immediatamente un tema cruciale rispetto ai nostri interrogativi. Gli architetti, attentamente analizzati da lui, soffrono di una psicosi che nasce dalla piramide sociale ed organizzativa descritta magistralmente dagli egizi, collocati quasi al vertice vivono la responsabilità di essere demiurghi. Una brutta bestia una brutta responsabilità, che sono piuttosto facilmente percepibili. C’è un senso misto di dovere e di superiorità che non è semplice condividere e socializzare. Al contrario la sua percezione di Gino Valle è stata quella di un uomo figlio del suo tempo, delle tendenze, delle grandi tensioni sociali, da un lato e delle grandi innovazioni tecnologiche dall’altro. Un uomo che ha avuto la capacità di riuscire non solo a gestire questa responsabilità ma di essere grandemente anticipatore.
Stefano Pujatti, architetto e collaboratore nella sede parigina dello Studio Valle, riflettendo sul tema della permanenza dell’architettura, su ciò che resta e ciò che passa, chiarisce il tema. Alcuni lavori restano perché hanno un significato che trascende dall’essere edificio. Il Monumento alla Resistenza, ad esempio, è entrato in modo netto nella storia dei luoghi. Dello stesso intervento di Piazzale XXVI Luglio abbiamo modo di parlare con l’architetto Federico Marconi collega di Gino Valle nel ‘57, suo amico per tutta la vita. Ricorda questo progetto, il cui diametro è pari al diametro della cupola del Tempio Ossario in omaggio al progetto del padre Provino, come un progetto frutto di esperimenti notturni e di una collaborazione con il paesaggista belga George Gyssels, morto prematuramente, segno di un’apertura ad un contesto tutt’altro che provinciale.
Ma sono nuovamente Paolo Fantoni e il figlio Pietro Valle a evidenziare un tema chiave nella dialettica tra memoria e permanenza dell’architettura. La capacità di giocare con il tempo. Negli ultimi anni della sua vita Gino Valle si dedica ad un lavoro simultaneo e parallelo su urbanistica e architettura elaborando piani ed al contempo i progetti da inserirvi. In questo modo il tempo lungo del piano ed il tempo breve del progetto entrano necessariamente in risonanza. L’interfaccia urbanistica, intesa come pezzo di città, e le architetture cominciano a dialogare tra loro. Queste ultime fungono da verifica del piano e contemporaneamente da variante, al mutare delle necessità. Il piano dà dei riferimenti generali di qualità dello spazio a cui i singoli edifici devono attenersi ma nella loro articolazione lo evolvono. Questo doppio registro, scala grande scala piccola e tempo lungo tempo breve dei progetti permette di modulare quest’ultimo, a volte approssimandolo all’eterno a volte accelerandolo in modo improvviso. Valle era bravissimo a lavorare con il tempo, ad esempio nell’insediamento produttivo della Fantoni non si è mai dato una regola assoluta, ha preferito lavorare con i materiali industrializzati cambiando ogni volta e sperimentando differenti applicazioni, non c’è un unico metodo, tutto l’edificato è piuttosto un catalogo di archeologia di metodi costruttivi differenti che, pur in un contesto dove cambia molto e molto spesso perché lavorare con l’industria significa lavorare con una velocità legata ai cambiamenti tecnologici, riesce ad avere quella flessibilità necessaria al continuo adattamento.
Ma nel patrimonio lasciato da Valle ad Osoppo non c’è solo lo stabilimento Fantoni quanto piuttosto il progetto di definizione di quello che è stato il protocollo di tutta la zona industriale. La qualità del campus di Osoppo è il portato diretto della definizione di questo masterplan in grado di permettere all’architettura di vivere appunto un tempo lungo.
Paolo Fantoni riconosce che non era sempre semplice comprendere la visione di Valle, poi riflettendo ci si rendeva conto che quanto da lui prospettato non era solamente corretto ma era il senso puro delle cose. Se la gran parte si limitava a ragionare appoggiandosi al passato Gino Valle aveva la capacità di intuire ed anticipare la visione del futuro ed allo stesso tempo plasmava questa materia per assecondare le sue idee.
Secondo Pietro Valle una delle più importanti lezioni che ci lascia suo padre è proprio quella di provare a superare la condanna del tempo, che attenta la firmitas degli edifici, manipolandolo attraverso gli strumenti del progetto.
Questo a dimostrare, come ampiamente abbiamo ragionato con il collega Federico Mentil, che un architetto come Gino Valle, che lascia una traccia di sé nella storia dell’Architettura, non può essere guardato unicamente attraverso le sue opere quanto per un suo metodo o meglio approccio al progetto.
“Esercizio del dubbio”, un punto fisso nel pensiero di Valle, che non lascia un metodo e non lascia uno stile, lascia piuttosto un’attitudine alla curiosità alla ricerca e all’apertura totale in cui ogni specifico progetto si inventa il suo contesto ed i suoi parametri. Per lui ogni progetto rappresenta un’opportunità per rimettere in discussione gli assunti dei precedenti in modo da non avere mai né un linguaggio né delle certezze prestabiliti. Anche l’esperienza costruttiva al pari di quella tipologica ogni volta vengono declinate nello specifico contesto in modo che le conoscenze precedenti vengano rimesse in discussione. Non c’è nessuna regola assoluta e nessun linguaggio prestabilito. Non esiste quello che oggi chiameremmo “brand”.
Tutto questo è cristallino nell’affermazione, rilasciata da Valle stesso in un’intervista “Gino Valle non esiste, esistono solo le sue architetture ed ogni architettura stabilisce le proprie regole.”
Forse un’esagerazione che tuttavia sotto intende il desiderio di non essere riconosciuto attraverso questi canoni di consumo dell’architettura e di conservare la libertà di cambiare ogni volta.
Pujatti, nella consapevolezza che Gino Valle sia stato grande architetto, ne riconosce la capacità di affrontare i temi con un livello di libertà e soprattutto curiosità fuori dal comune. Un uomo desideroso di provare le cose andandoci a fondo con una rapidità sorprendente fino a quando non le comprendeva. Un architetto senza pregiudizi, interessato anche a seguire le mode, da indagare con curiosità ed abbandonare prestissimo una volta comprese.
Tutto ciò contraddice un’idea piuttosto diffusa di Gino Valle persona sempre certa di quello che faceva, al contrario probabilmente non era così sicuro. Questo emerge guardando i suoi lavori da cui si capisce il suo costante porsi dei dubbi ed il suo costante sforzo nel provare diverse strade.
Valle ha convissuto con il dubbio, non ha astratto una parte di se stesso, ma ha preso tutto se stesso e ne ha fatto architettura. Ha prodotto capolavori assoluti che nessuno in quel periodo raggiungeva simultaneamente ad altri in cui ha tentato strade che poi forse erano sbagliate ma comunque le ha tentate. Non costruisce un linguaggio, non ha mai teorizzato nulla. Non ha mai imposto un modo di fare, un modo di disegnare. La forza di Gino Valle è stata quella di aprire la gabbia invece che creare la gabbia.
A livello progettuale una delle sue ricerche più evidenti è quella incentrata sulla costante messa in campo di due poli architettonici opposti. Da un lato il “grado zero”, l’edificio prefabbricato, industrializzato, i moduli, l’anonimato formale, dall’altro improvvisi accenti. In Fantoni c’è la fabbrica seriale e poi la Cattedrale piuttosto che le Capanne, il resto fa da sfondo, da palcoscenico silenzioso. Afferma correttamente Federico Marconi “Gino è stato tra i primi a dare dignità di progetto all’edificio industriale”. Una dignità frutto di queste sperimentazioni, in cui la serialità e l’individualità e la conseguente tensione che si genera tramutano un tema architettonicamente minore in un’opera d’arte. E non a caso Valle affrontava il tema tra riconciliazione tra edifici produttivi e paesaggio al pari di come negli Stati Unti personalità come Richard Serra o Donald Judd lo affrontavano a livello artistico.
Ed è questo approccio innovativo che permette a Valle di entrare in sintonia con quei pochi imprenditori che, nell’ambito industriale italiano piuttosto povero culturalmente in quegli anni, sono in grado di comprendere quanto l’investire nella qualità architettonica della propria sede rappresenti un messaggio ed un investimento, una lezione, un elemento di comunicazione molto forte che chiaramente si ripaga nel tempo.
Questo è molto evidente ad Osoppo dove il filo conduttore non è il dettaglio lezioso ma la filosofia di utilizzo dei materiali poveri che oltre a definire in modo chiaro un paesaggio architettonico hanno garantito alte performance nel tempo. Ma parallelamente è altrettanto evidente la sensibilità insediativa rispetto al contesto. Il costante richiamo nel suo lavoro al feng shui cinese, pur apparendo in prima battuta un’affermazione bizzarra, in realtà per Gino Valle rappresentava una bussola metodologica relativa all’orientamento rispetto a montagne, fiumi e strade ed assumeva una caratterizzazione che dava senso allo sviluppo del progetto. Garantendo in questo modo una costante coerenza tra progetto e paesaggio.
Paolo Fantoni ci racconta un aneddoto relativo a suo padre, il Cavalier Marco Fantoni. In tempi di povertà nelle famiglie era abitudine riutilizzare i vecchi tessuti che venivano tinti di blu in modo da donar loro una seconda vita. Per tale ragione il Cavalier Fantoni era abituato a vestire sempre in blu, considerato come un colore di famiglia. Poco prima del terremoto il blu esce dal vestiario per andare a colorare anche l’architettura, viene infatti per la prima volta utilizzato per dare un colpo di nuova vita a dei vecchi capannoni in graniglia che si trovavano allineati lungo la strada verso Osoppo. Dopo questo primo esperimento di uso del blu, grazie alla conosceza con Bergamin, viene contattato il grafico Cittato a cui viene affidato l’incarico di sviluppare l’immagine coordinata della Fantoni. Il suo lavoro spazia fino alla grafica dei camion che da quel momento portano la scritta blu.
Quando Gino Valle prima del terremoto, realizza il primo capannone segheria con le caratteristiche lamiere a 45°, utilizza per queste proprio il blu di Cittato.
Da quel momento tutti i successivi interventi post terremoto saranno caratterizzati dal blu che diventa dominante. La storia ha un successivo sviluppo a metà anni novanta quando, sotto la direzione di Artemio Croatto, prende il via la collana di volumi “Blue Industry”. E’ proprio in quel periodo, mentre si fotografa l’architettura di Gino Valle in relazione al paesaggio circostante, che emerge la consapevolezza che quel blu che da anni è così legato alla famiglia Fantoni è in fondo lo stesso colore che in certi momenti assumono le montagne che fanno da cornice al campus. Torna quel feng shui che lontano dal suo esotismo non è altro che armonizzarsi con il luogo, la storia e certe tracce nascoste.
Ma non si può non ripensare a quando, il sabato mattina alle undici, Gino Valle passeggiava per i campi davanti alla Fantoni, con la sua macchina fotografica. Andava e fotografare, con l’erba alta e con l’erba bassa, con il sole alto e il sole basso, usando la fotografia come strumento di controllo del progetto.
Una costante ricerca che non si fermava mai alla prima soluzione. Chi era incaricato di sviluppare gli elaborati grafici veniva continuamente spiazzato ed anche dopo una settimana di duro lavoro spesso Valle era capace di levare il tappeto da sotto i loro piedi e ricominciare da zero. L’esercizio del dubbio come metodo progettuale, sia al tecnigrafo che in cantiere, lo teneva vivo. Allo stesso modo tenere insieme diversi temi, tenere insieme diverse scale, tenere insieme luogo, insediamento, costruzione e funzionalità.
Sui programmi era inesorabile. Visti sempre da due punti di vista differenti. Da un lato quello dimensionale e di costruzione di relazione tra le parti. Dall’altro quello di trovare sempre un orientamento per l’utente. Non era possibile per Valle ragionare per parti separate o spazi serviti e serventi perché ciò avrebbe generato luoghi a compartimenti stagni, antitetici rispetto a quella necessità di senso civico e socialità che rappresentava uno dei suoi obbiettivi. Centro del programma era costruire delle relazioni più complesse di queste parti interne ed un orientamento per cui un utente si rendesse sempre conto del suo posto nello spazio. Una lezione morale e sociale acquisita dagli anni ‘60 e scaricata di ogni ideologia.
Obbiettivo diviene l’appropriazione degli spazi di un edificio da parte dei suoi utenti che riescono ad orientarsi sentendosi a casa. In Fantoni, ad esempio, il Centro Servizi è strategicamente collocato in modo baricentrico, tra le fabbriche, questo far scontrare le cose, cambia tutta la circolazione realizzando un vero e proprio campus, che pone al centro le persone, invece che un insediamento produttivo.
Ma Gino Valle era talmente svelto nel capire le cose prima degli altri che per impazienza faceva prima lui e questo suo talento diventava un’arma a doppio taglio che se da un lato gli permetteva di essere sempre così veloce nel trovare idee e cambiarle dall’altro non gli faceva aspettare gli altri. “Il suo entusiasmo non era facile”, ricorda il figlio Pietro, “era uno che fagocitava tutto, anche nei confronti dei collaboratori, non dava agli altri il tempo di pensare le soluzioni progettuali. Non lo faceva apposta per annichilire gli altri, lo faceva per una forma di entusiasmo nonché di enorme capacità di capire le cose prima, talento e sensibilità allo stesso tempo.”
Lavorava al 100% ventiquattro ore al giorno. Carlo Magnani racconta di quando un giorno lo fermò in corridoio allo IUAV e gli disse “Carlo ma tu quando hai un problema progettuale ci pensi di notte? Perché io se non l’ho risolto ci penso di notte e non dormo”.
Stefano Pujatti ci parla di “Un personaggio difficile, che tuttavia era sempre capace di trovare la sua strada per farsi capire ed amare. A differenza di molti altri, lui osservava con molta attenzione tutto. Era uno curioso, privo di pregiudizi. Una persona molto aperta, agnostica. Capace a saltare la prima cosa, l’immagine, ed andare in profondità.”
Molti scambiano questo suo individualismo per una sorta di mancanza di regole piuttosto che di espressionismo personale, ma nulla è più lontano dalla verità. Gino Valle era un uomo capace di tenere sempre assieme l’alto ed il basso. Da un lato era un intellettuale con una sua vita privata, dall’altro sapeva parlare con tutti. Sempre Marconi ci racconta di come tra gli amici di Valle oltre ad artisti come Ciussi o i Basaldella ci fosse un nutrito gruppo di persone pratiche, elettricisti e carpentieri con i quali amava passare le serate.
Il padre, Provino Valle, gli aveva trasmesso un senso di necessità ad indagare cosa accadesse fuori dal contesto provinciale. Provino che aveva studi a Roma e Trieste, Provino abbonato a riviste tedesche. E così Udine luogo di frontiera e tangenziale, dove è possibile crescere culturalmente con un’imprenditoria altrettanto curiosa e desiderosa di svilupparsi si mescola con quella dimensione molto friulana del viaggiatore che va in giro a cercar cose, a confrontarsi con un mondo evoluto da portarsi a casa.
Gino Valle secondo l’amico Federico Marconi non era interessato a lasciar nulla, “faceva per divertisti, non si preoccupava di essere seguito o compreso”. Era un progettista allo stato puro e, come ricorda il figlio, anche verso la fine della sua carriera non rifiutava neanche i più piccoli incarichi perché per lui progettare era una necessità vitale, sempre una nuova avventura un nuovo viaggio.
Un viaggio come quello che abbiamo provato a fare in questo testo. Alcuni riflessi delle molte sfaccettature di Gino Valle. Questo è il nostro itinerario certamente ce ne potrebbero essere stati molti altri e molto differenti. Non siamo arrivati a nessuna conclusione ci siamo limitati a porre alcuni spunti di riflessione per comprendere alcune pieghe di un architetto che ha di fatto contribuito con la sua curiosità e costante voglia di guardare al futuro ad un cambio di passo dell’architettura contemporanea. Perché Gino Valle di questo è stato capace senza ombra di dubbio.

Articolo per conto dell’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Udine apparso sul n°119 della rivista VistaCASA  novembre-dicembre 2023

Fotografie: Massimo Crivellari, Elia Falaschi, Orazio Pugliese